Sono sempre di più gli imprenditori che scelgono di
rimuovere il tetto per ottenere uno sconto sull'Imu.
Un capannone
senza tetto come metafora di un'imprenditoria senza speranza. Senza fiducia nel
proprio Paese. Un brutto sentimento. Che lacera anima e cervello. Quando si
arriva a «scoperchiare» il proprio capannone per ridurre il peso dell'Imu, vuol
dire che si è allo stremo.
E allo
stremo sono in tanti, in una nazione che non capisce. O finge di non capire. I
giornali del Nord Est sul tema hanno le antenne sensibili. E così, battendo
palmo a palmo gli uffici comunali, è venuto fuori che negli ultimi tre anni si
sono moltiplicate le domande per le «rimozione delle coperture apicali» (la
burocrazia i tetti dei capannoni li chiama così: «coperture apicali»).
Per ottenere il nullaosta, il «richiedente» deve dimostrare che l'azienda è in
uno stato di «grave sofferenza», tale da pregiudicarne «in toto o in parte la
produttività». Che sono esattamente le condizioni in cui versano ormai migliaia
di ditte. Ciò fatto si dovrebbe ottenere (con la burocrazia il condizionale è
sempre d'obbligo) dall'«ufficio preposto» il via libera alla «rimozione» del
tetto del capannone. Una «menomazione» che implica la «decurtazione» dell'Imu
(la famigerata imposta municipale unica), il cui pagamento potrà anche essere
dilazionato. Le cronache che descrivano questo inquietante scenario oscillano
fra attonita incredulità e pragmatica constatazione. A mezz'aria fluttua una
maledetta domanda: ma com'è possibile che le tasse possano spingerti a
«sfregiare» quanto hai di più caro al mondo? Il capannone è per un piccolo
imprenditore l'equivalente della casa. In tanti amano definire i propri operai
la loro «seconda famiglia». Si badi bene: non c'è nulla di retorico in queste
definizioni; non si tratta di un vezzo, in molti casi è la pura verità.
I nuovi
padroncini (nulla a che fare con lo stereotipo dei vecchi cummenda) sempre più
spesso lavorano fianco a fianco con i propri dipendenti, indossano le loro
stesse tute, soffrono gli stessi patemi della crisi. Poi, un brutto giorno,
arriva il crac finanziario, l'ombra del fallimento si allunga. E allora, per
risparmiare almeno sull'Imu, ecco l'idea: rendere «inagibile» il capannone
privandolo della sua «copertura apicale». Per chi è costretto a questa scelta,
una sconfitta umana e professionale. Roba difficile da digerire. Uno degli
imprenditori storici dell'ex florido distretto del legno della Sculdascia
(Padova) ha le lacrime agli occhi ma ancora tanta dignità. Forse per questo
chiede che non venga scritto il suo nome. Chissà, magari immagina tra breve di
ricoprire nuovamente il tetto del suo capannone che è stato costretto a
scoperchiare perché impiccato dalle tasse; «impiccato», una parola doppiamente
lugubre da queste parti, considerati i tanti suoi colleghi che, disperati, si
sono impiccati davvero. I più «fortunati» hanno chiuso i battenti, o si sono
ridotti a imprenditori «senza tetto». Piccoli industriali ormai a produttività
zero, ma che lo Stato vuol continuare a spremere come limoni. Anche se ormai si
tratta di limoni secchi in un campo devastato dalle cavallette.
«La mia azienda - ricordava l'imprenditore qualche tempo fa dalle colonne del
Mattino di Padova - è nata negli anni '70 e incarna il modello di sviluppo
tipico di un mobilificio di Casale. Da giovane falegname avevo un piccolo
capannone di 300 mq che poi negli anni si sono triplicati per accogliere i
nuovi dipendenti (11 in tutto) e rispondere alle richieste di un settore che,
nei tempi d'oro, garantiva fatturati di milioni di euro l'anno. Poi l'arrivo
della crisi, il tramonto del mobile in stile, i costi che superano le entrate.
La chiusura». Ma lo Stato non si rassegna, continua a trattarlo come fosse una
gallina dalle uova d'oro. Ma, quelle «uova», non sono più d'oro. Anzi, non ci
sono più neppure le uova. La realtà è sotto gli occhi di tutti, a non vederla è
solo il fisco: «Pago tasse pur senza aver più guadagni. Su tutte l'Imu, che mi
preleva almeno 4-5 mila euro l'anno. Nel 2013, tra errori e conguagli, ho
dovuto sborsare 10.600 euro».
In treno, lungo la linea adriatica, dai finestrini dello scassatissimo
Intercity Fracciabianca lo skyline dei capannoni «decapitati» ricorda molto da
vicino il paesaggio da day after industriale del Nord Est. Si passa dall'Emilia
Romagna alle Marche, poi si tocca l'Abruzzo e il Molise, fin giù in Puglia.
Ovunque lo scenario dei capannoni, versione en plein air, è lo stesso: lì dove
un giorno si produceva ricchezza, oggi c'è solo desolazione. «Neanche i
macchinari sono riuscito a vendere - ci racconta un imprenditore che operava
nel ramo laterizio -. Ogni tanto torno qui, dove ho lavorato - e dato lavoro -
per una vita intera. Resisto solo pochi minuti perché questi muri diroccati,
queste finestre sfondate, questi oggetti arrugginiti sembrano guardarmi,
accusandomi».
Parole che pronuncia nel suo capannone, ormai ridotto in rudere. Anche qui il
tetto non c'è più. Volgendo gli occhi in alto si vedono solo nubi nere. Chissà
se il cielo tornerà azzurro.
da Il Giornale Lun,
07/07/2014